Pensiero e poetica di Giacomo Leopardi

Voce principale: Giacomo Leopardi.

«O forse erra dal vero, / mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: / forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale.»

Giacomo Leopardi
La firma di Leopardi

Il pensiero e la poetica di Giacomo Leopardi sono caratterizzati dal pessimismo, l'aspetto filosofico che caratterizza tutto l'evolversi delle sue idee e ideali, assumendo nel tempo connotazioni diverse. Esse possono essere seguite attraverso le pagine dello Zibaldone e si manifestano con evidenza nei testi letterari come i Canti e le Operette morali.

Partendo da una posizione di estremo pessimismo personale, causato dalla perdita della gioventù, egli approda a un pessimismo storico riguardante il continuo decadimento della società, e infine a un pessimismo cosmico, consapevole dell'«infinita vanità del tutto»,[1] comprendente l'umanità e l'intero universo (nichilismo).

Leopardi colloca l'unica felicità possibile della vita umana nell'adolescenza, carica di aspettative e illusioni riguardo l'età adulta da cui resteranno tuttavia disingannate, per concludere che il piacere non è uno stato duraturo, ma solo un passaggio transitorio dal dolore alla noia, come sostenuto nel Sabato del villaggio dove l'attesa della festa è destinata a spegnersi nella deludente domenica, o nella Quiete dopo la tempesta per il quale esso è «figlio d'affanno».[2]

Egli non rinuncia tuttavia alla speranza e alla solidarietà,[3] e quindi in un certo senso, paradossalmente, all'amore per la vita e per le illusioni dell'arte e della poesia,[4] opponendo per ultimo un pessimismo eroico contro il fato e la natura «matrigna».[5] Mentre la sua poetica è inseribile tra classicismo e romanticismo, la sua filosofia da un lato si colloca nel post-illuminismo materialistico, ma senza ottimismo né fede nel progresso, dall'altro presenta alcune analogie con il contemporaneo pensiero di Schopenhauer, con la filosofia della vita e l'esistenzialismo successivo, anche per la ricerca di un senso nascosto della vita, che pure è pensato razionalmente come inesistente, e per la sfida titanico-romantica al «brutto poter che ascoso a comun danno impera».[6]

  1. ^ Così recita l'ultimo verso della poesia A se stesso del 1833.
  2. ^ Così il verso 32 della Quiete dopo la tempesta del 1829: «piacer figlio d'affanno».
  3. ^ Giovanni Gentile, Manzoni e Leopardi (1928).
  4. ^ Francesco de Sanctis, Schopenhauer e Leopardi (1858).
  5. ^ Amore e morte, ultima strofa.
  6. ^ Così il verso 15 della poesia A se stesso.

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