La presenza di eunuchi nell'antica Roma divenne sempre più frequente con l'espandersi delle conquiste romane nel Mediterraneo e con l'assimilazione delle culture e religiosità orientali come il culto della dea Cibele[1] che a Roma fu agli inizi malvisto per il suo carattere orgiastico. Successivamente, invece, la dea divenne una delle divinità protettrici di Roma in quanto le si attribuiva il fatto di aver distolto Annibale dall'invadere la città nel 204 a.C. Da quell'anno si tennero sempre grandi celebrazioni in onore della dea durante le quali i sacerdoti castrati (galli) e i fedeli si flagellavano, le donne si amputavano i seni e gli uomini si eviravano.[2]
La castrazione fu proibita dal diritto penale romano dalla Lex Cornelia Sullae de sicariis et veneficis del dittatore Lucio Cornelio Silla nell'81 a.C. che colpiva tra l'altro chi preparava, vendeva, comprava, deteneva o somministrava un venenum malum necandi hominis causa ("veleno per uccidere il male per il bene dell'uomo") e forse anche chi praticava arti magiche; in seguito la si applicò all'aborto volontario, alla castrazione e alla circoncisione, tranne quella degli Ebrei.[3]